Tragedie by Seneca
autore:Seneca
La lingua: ita
Format: epub
editore: UTET
pubblicato: 2012-12-31T16:00:00+00:00
NUTRICE, FEDRA, CORO.
NU.
Non c’è nessuna speranza che un male così grande si possa alleviare, e non ci sarà nessun termine alle furiose fiamme d’amore. È arsa da un silenzioso fuoco, e benché sia chiusa e nascosta la sua follia è tradita dal volto; erompe fuori dagli occhi un fuoco e le stanche guance rifiutano la luce; a lei, preda del dubbio, nulla che sia costante piace, squassa variamente le sue membra un incerto dolore. Ora come una moribonda vacilla con il passo barcollante e riesce a malapena a sostenere il capo sul collo tremante, ora si abbandona al riposo e, immemore del sonno, trascina la notte in lamenti; comanda di rialzare il suo corpo e poi di nuovo di riporlo a giacere, e comanda ora di scioglierle i capelli, ora di nuovo di acconciarli: non sopportando più se stessa, sempre muta il suo aspetto. Non le sovviene più alcuna preoccupazione per il cibo o per la sua salute; cammina con passo incerto, già abbandonata dalle forze: non ha più lo stesso vigore, non ha più il purpureo rossore che le tingeva il luminoso volto; il tormento d’amore devasta le sue membra, ormai i suoi passi tremano, è caduta la tenera grazia del luminoso corpo; e quegli occhi che portavano il segno della fiaccola di Febo non brillano più di una luce gentile o della luce dei suoi antenati. Cadono lungo il volto le lacrime, e le guance sono irrigate da una continua rugiada, come sui gioghi del Tauro si sciolgono le nevi colpite da una tiepida pioggia.
Ma ecco, si apre la reggia dall’alto frontone: proprio lei, piegata all’indietro sul cuscino del dorato giaciglio, con la mente presa dalla follia, rifiuta la consueta veste.
FE.
Allontanate, mie ancelle, le vesti lavorate con la porpora e l’oro, stia lungi da me il rosso colore della porpora Tiria, i fili che i Cinesi, che abitano ai confini del mondo, raccolgono dai rami; una piccola cintura stringa insieme le pieghe sciolte della veste; il collo sia libero da monili, una pietra nivea, dono del mare Indiano, non gravi le orecchie; i capelli sparsi non abbiano Assiri profumi. Così, mosse a caso, le chiome si spargano sul collo e sulla parte più alta delle spalle; agitate da rapide corse seguano il vento. La mano sinistra si darà alla faretra, la mano destra scaglierà il giavellotto Tessalo: tale fu la madre del severo Ippolito. Come, abbandonate le plaghe del gelido Ponto, guidò le schiere, calcando il suolo Attico, l’Amazzone del Tanai o della Meotide, e prima racchiuse in un nodo i capelli, poi li lasciò liberi, avendo il fianco protetto da un lunato scudo, così io entrerò nella foresta.
CO.
Metti da parte i lamenti: il dolore non solleva gl’infelici; placa l’agreste nume della vergine dea.
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